INL - Interdizione ante/post partum - Indicazioni operative
L’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha fornito alcune indicazioni in merito alla fase istruttoria e di valutazione dei procedimenti volti all’emanazione dei provvedimenti di interdizione dal lavoro per le lavoratrici madri.
Suggerimento n.385/77 del 16 luglio 2025
Come noto, il D.lgs. 151/2001 (c.d. “Testo Unico in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità”), agli articoli 6, 7 e 17, prevede specifiche misure finalizzate alla tutela della salute e della sicurezza delle lavoratrici madri e della prole.
Tali misure si traducono, a seconda delle circostanze, nell’adozione di interventi di adeguamento delle condizioni lavorative o delle mansioni svolte, ovvero, qualora ciò non sia possibile o risulti insufficiente, nell’interdizione dal lavoro per motivi sanitari o ambientali (disciplinata sotto il profilo esecutivo dall’art. 18 del D.P.R. n. 1026/1976).
In tale contesto, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro, con la nota prot. n. 5944 dell’8 luglio 2025, ha fornito agli ispettori territoriali (ITL) specifiche istruzioni operative in merito all’adozione dei provvedimenti di interdizione dal lavoro, nei periodi antecedente e successivo al parto, previsti dagli articoli sopra richiamati del D.lgs. 151/2001.
Riportiamo di seguito tali indicazioni, al fine di agevolare le imprese nell’applicazione corretta e coerente delle disposizioni previste dalla normativa vigente.
PRESENTAZIONE ISTANZA DI INTERDIZIONE AL LAVORO
La richiesta di interdizione dal lavoro può essere presentata sia dalla lavoratrice che dal datore di lavoro, utilizzando l’apposita modulistica disponibile sul portale dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL).
All’istanza devono essere allegati:
- copia del documento di identità del richiedente;
- certificato medico di gravidanza con l’indicazione della data presunta del parto (per l’interdizione anticipata) oppure certificazione/autocertificazione di nascita (per l’interdizione posticipata);
- indicazione delle mansioni effettivamente svolta dalla lavoratrice.
In caso di istanza presentata dal datore di lavoro, è necessario motivare l’impossibilità di adibire la lavoratrice a mansioni alternative compatibili, fornendo elementi tecnici attinenti all’organizzazione aziendale.
Deve inoltre essere specificata l’eventuale esposizione della lavoratrice a lavori faticosi, pericolosi o insalubri, così come individuati negli allegati A e B del D.lgs. n. 151/2001, con riferimento anche all’art. 7, commi 1 e 2 del medesimo decreto, anche mediante la trasmissione dello stralcio del Documento di Valutazione dei Rischi (DVR) relativo alle lavoratrici gestanti e puerpere di cui all’allegato C, dell’art. 11, D.lgs. 151/2001.
FASE ISTRUTTORIA
Durante la fase istruttoria, l’ITL competente è tenuto a valutare la documentazione trasmessa e la sussistenza dei presupposti normativi per l’adozione del provvedimento di interdizione dal lavoro. In particolare, l’ITL deve verificare che ricorrano congiuntamente le condizioni previste dall’art. 17, comma 2 del D.lgs. n. 151/2001, alle lettere b) e c), di seguito riportate:
- b) presenza di condizioni di lavoro o ambientali ritenute pregiudizievoli per la salute della lavoratrice e del nascituro;
- c) impossibilità di adibire la lavoratrice ad altre mansioni compatibili, come previsto dagli articoli 7 e 12 del medesimo decreto.
La valutazione si fonda sull’identificazione dei rischi correlati alle specifiche mansioni e all’ambiente di lavoro, con particolare attenzione alla presenza di fattori potenzialmente dannosi, quali (a titolo esemplificativo e non esaustivo):
- agenti fisici: rumore, vibrazioni, radiazioni, microclima sfavorevole, campi elettromagnetici, microonde, ultrasuoni;
- sostanze chimiche: vapori di solventi, fumi di saldatura, oli minerali, plastificazione, sostanze tossiche, nocive, corrosive o infiammabili;
- agenti biologici e rischi per la sicurezza personale (es. potenziali aggressioni).
È importante evidenziare, come chiarito dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali con nota n. 7553/2013, che tale procedimento non ha natura ispettiva: l’interdizione si basa sulla valutazione del rischio effettuata dal datore di lavoro, ai sensi dell’art. 11 del D.lgs. 151/2001 e dell’art. 28, comma 1, del D.lgs. 81/2008, e non presuppone un accertamento diretto da parte dell’organo di vigilanza, salvo i casi previsti dall’art. 7, commi 1 e 2.
Pertanto, qualora non sia possibile eliminare i rischi identificati né ricollocare la lavoratrice a mansioni compatibili (anche inferiori, senza perdita retributiva), l’ITL dovrà procedere con l’emissione del provvedimento di interdizione dal lavoro, ai sensi dell’art. 7, comma 6, del D.lgs. n. 151/2001.
FASE VALUTATIVA
L’art. 7, comma 1, del D.lgs. n. 151/2001 stabilisce “il divieto di adibire la lavoratrice al trasporto e al sollevamento di pesi, nonché a lavori pericolosi, faticosi e insalubri elencati specificamente negli Allegati A e B del decreto” citato.
Durante la fase valutativa, l’ITL competente dovrà verificare le condizioni lavorative della lavoratrice per accertare se rientrino tra quelli indicati nell’Allegato n.1 alla nota in commento:
- i lavori indicati con la lettera A (art. 7, co. 1);
- i lavori indicati con la lettera B (art. 7, co. 2);
- i lavori indicati con la lettera C (art. 11, co. 1).
L’Allegato A precisa che il divieto di trasporto comprende qualsiasi attività di trasporto manuale, sia a braccia, a spalle, o mediante carretti su strada o guida, nonché tutte le operazioni connesse di carico e scarico.
A riguardo, la nota prot. n. 553 del 2 aprile 2021 dell’INL, ai fini dell’adozione dei provvedimenti di tutela nel periodo ante e post partum, è sufficiente la constatazione che la lavoratrice sia adibita a mansioni di trasporto o sollevamento pesi, fermo restando l’accertamento dell’impossibilità di assegnarla ad altre mansioni compatibili.
In particolare, la medesima nota chiarisce che:
- è vigente un divieto generalizzato;
- l’adibizione a tali mansioni costituisce motivo sufficiente per l’emanazione del provvedimento di interdizione.
Si precisa che per “carico” si intende un peso superiore ai 3 kg movimentato in modo non occasionale durante la giornata lavorativa; per pesi inferiori a tale soglia si valutano altri fattori di rischio come postura, stazione eretta e ritmi lavorativi.
Si precisa inoltre che, nella fase post-partum, alla ripresa dell’attività lavorativa, la lavoratrice non deve essere sottoposta alla movimentazione manuale di carichi qualora l’indice di rischio (secondo UNI ISO 11228-1) sia pari o superiore a 1.
VALUTAZIONE DEL RISCHIO PER LA SICUREZZA E LA SALUTE DELLE LAVORATRICI - ESAME DVR
Ai sensi dell’art. 11 del D.lgs. n. 151/2001, il datore di lavoro è tenuto a valutare i rischi per la sicurezza e la salute delle lavoratrici in condizioni di lavoro indicate nell’Allegato C, nel rispetto delle linee guida della Commissione Europea, individuando le misure di prevenzione e protezione da adottare.
I risultati della valutazione e le relative misure di prevenzione e protezione adottate devono essere comunicati a tutte le lavoratrici e ai rappresentanti per la sicurezza (art. 11, comma 2, D.lgs. 151/2001).
Alle lavoratrici deve altresì essere comunicato che la tutela si attiva solo a seguito della comunicazione al datore di lavoro dello stato di gravidanza (anche mediante presentazione del certificato medico) ovvero dell’affidamento o adozione (anche mediante il provvedimento emesso dai competenti organi giudiziari).
La fase valutativa si avvia con l’esame dello stralcio del Documento di Valutazione dei Rischi (DVR) specifico per le lavoratrici madri, integrato da un’analisi puntuale dell’ambiente, orario, mansione e modalità di svolgimento effettivo dell’attività lavorativa.
Quanto agli effetti della valutazione del rischio, l’art. 12 del d.lgs. n. 151/2001 non lascia margini interpretativi: “qualora i risultati della valutazione di cui all’art. 11 comma 1 rivelino un rischio per la sicurezza e la salute delle lavoratrici, il datore di lavoro adotta le misure necessarie affinché l’esposizione al rischio delle lavoratrici sia evitata modificandone temporaneamente le condizioni o l’orario di lavoro”… “Ove la modifica delle condizioni o dell’orario di lavoro non sia possibile per motivi organizzativi o produttivi, il datore di lavoro applica quanto stabilito dall’art. 7, commi 3, 4 e 5 dandone contestuale informazione scritta al servizio ispettivo del Ministero del lavoro competente per territorio, che può disporre l’interdizione dal lavoro per tutto il periodo di cui all’art. 6, comma 1”.
Ne consegue che, laddove non sia possibile eliminare il rischio né ricollocare la lavoratrice in mansioni compatibili, l’ITL competente procederà all’emanazione del provvedimento di interdizione ai sensi dell’art. 7, comma 6, D.lgs. n. 151/2001. Diversamente, il datore di lavoro dovrà procedere al trasferimento della lavoratrice ad una mansione non pregiudizievole.
In sintesi, il datore di lavoro dovrà adottare una o più delle seguenti misure:
- modifica temporanea delle condizioni o dell’orario di lavoro;
- spostamento della lavoratrice ad altra mansione o reparto non pregiudizievole;
- in mancanza di possibilità per le precedenti soluzioni, presentazione tempestiva all’ITL competente dell’istanza di astensione ante/post partum, per l’ottenimento del provvedimento di interdizione.
FASE PROCEDURALE
Nel richiamare le indicazioni operative relative alle procedure di rilascio dei provvedimenti di interdizione ante e post partum, in particolare quanto disposto dall’INL con la nota prot. n. 1550 del 13/10/2021, si evidenzia che l’art. 18, comma 7, del D.P.R. n. 1026/1976 stabilisce che il provvedimento di interdizione, che l’ITL competente deve adottare entro 7 giorni dalla ricezione della documentazione completa (art. 18, comma 2), rappresenta il presupposto necessario affinché la lavoratrice possa astenersi dal lavoro.
Il termine di 7 giorni decorre dal giorno successivo alla ricezione della documentazione completa o, in caso di richiesta di integrazione, dal giorno successivo alla ricezione della documentazione integrativa.
Si precisa che l’astensione dal lavoro non può iniziare dalla presentazione dell’istanza o dalla conclusione dell’istruttoria, ma esclusivamente dalla data di adozione del provvedimento di interdizione (Cfr. interpello MLPS prot. n. 97/2006, circolare MLPS n. 5249/2008, nota INL n. 1550/2021).
In relazione all’ipotesi prevista dall’art. 18, comma 8, D.P.R. n. 1026/1976 (in cui il datore di lavoro che produce una dichiarazione da cui risulta in modo chiaro, sulla base di elementi tecnici attinenti all'organizzazione aziendale, l’impossibilità di adibire la lavoratrice ad altre mansioni), il provvedimento di interdizione può essere emesso immediatamente, senza preventiva istruttoria, fermo restando il successivo svolgimento dei controlli; in ogni caso l’astensione decorre dalla data del provvedimento.
Qualora l’istanza inoltrata all’ITL competente risulti carente dello stralcio del DVR o della dichiarazione del datore di lavoro oppure non venga fornito riscontro alla richiesta di integrazione dell’ITL competente, per garantire la tutela della lavoratrice, l’Ispettorato valuta l’opportunità di attivare un accertamento in loco finalizzato alla verifica dei presupposti per l’emanazione del provvedimento interdittivo. In casi estremi può essere disposta un’ispezione specifica, previo coordinamento con la vigilanza tecnica.
Il provvedimento di interdizione viene trasmesso dall’ITL competente alla lavoratrice, al datore di lavoro e, se necessario, all’ente assicuratore per gli adempimenti connessi al trattamento economico.
Nel caso in cui l’ITL competente ritiene di non accogliere la richiesta di interdizione, prima della formale adozione del provvedimento negativo, comunica per iscritto tramite e-mail o PEC (raccomandata A/R solo in presenza di comprovate ragioni oggettive) i motivi ostativi (preavviso di diniego), al fine di permettere all’istante di presentare per iscritto delle osservazioni, eventualmente corredate da documenti (art. 10-bis L. n. 241/1990).
Nei casi di rigetto, l’ITL competente deve comunque adottare un provvedimento definitivo (di diniego) motivato, anche in assenza delle predette osservazioni da parte della lavoratrice (conformemente agli obblighi previsti dagli artt. 2 e 3 della L. n. 241/1990). Il provvedimento viene comunicato a mezzo PEC (ove disponibile) ovvero tramite e-mail (raccomandata A/R solo in presenza di comprovate ragioni oggettive).
La sospensione del termine per l’adozione del provvedimento decorre dal ricevimento della comunicazione di preavviso e termina dieci giorni dopo la presentazione delle osservazioni dell’istante o, in mancanza, dalla scadenza di tale termine. Pertanto, il termine per la conclusione del procedimento si estende sommando il periodo intercorrente tra la richiesta di integrazione e la comunicazione dei motivi ostativi e quello successivo al termine per la presentazione delle osservazioni.
I provvedimenti di interdizione ante e post partum sono da considerarsi definitivi.
Gli strumenti di tutela amministrativa e giurisdizionale a disposizione della lavoratrice comprendono:
- ricorso al titolare del potere sostitutivo in caso di inerzia;
- ricorso giurisdizionale avverso il provvedimento di diniego, da proporre innanzi al Giudice del Lavoro, in quanto il provvedimento riguarda la tutela di un diritto soggettivo della lavoratrice rispetto al quale l’Ispettorato è titolare di un potere vincolato finalizzato all’accertamento di meri dati fattuali individuati dalla legge.
CASI SPECIFICI
Al fine di agevolare l’istruttoria amministrativa di seguito si indicano le attività lavorative che risultano particolarmente pericolose e faticose (elenco non esaustivo):
- lavori che comportano una posizione in piedi per più di metà dell’orario o che obbligano ad una posizione particolarmente affaticante o scomoda;
- lavori su scale ed impalcature mobili e fisse, con pericolo di caduta;
- trasporto e sollevamento di pesi;
- lavori con macchina mossa a pedale quando il ritmo sia frequente ed esige sforzo;
- uso di macchine o strumenti che trasmettono intense vibrazioni;
- lavori con obbligo di sorveglianza sanitaria;
- lavori a bordo di qualsiasi mezzo di trasporto;
- lavori che espongono a temperature troppo basse o troppo alte;
- lavoro notturno.
POSTURA ERETTA PROLUNGATA
L’Allegato A del D.lgs. n. 151/2001, all’art. 7, lett. g), individua tra i lavori vietati durante la gravidanza quelli che comportano una stazione in piedi per più di metà dell’orario di lavoro o che obbligano a una posizione particolarmente affaticante, fino al termine del periodo di interdizione.
Per “stazionamento in piedi” si intendono non solo le situazioni in cui la mansione prevede la posizione eretta continuativa, ma anche quelle in cui la lavoratrice si trovi a deambulare, come chiarito dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali con nota prot. n. 20211 del 6 novembre 2015. In particolare, è stato specificato che la mansione di commessa-addetta alla vendita rientra pienamente nella previsione dell’Allegato A, lett. g), anche laddove sia consentito il movimento all’interno dell’ambiente lavorativo, in quanto tale condizione implica comunque una postura affaticante.
Pertanto, nelle ipotesi in cui l’attività lavorativa preveda uno stazionamento in piedi superiore alla metà dell’orario ordinario (indipendentemente dalla possibilità di deambulare), dovrà essere adottato il relativo provvedimento di interdizione ante partum, senza necessità di ulteriori valutazioni, trattandosi di un’ipotesi di divieto esplicito.
In merito alla quantificazione del limite temporale, si richiama la circolare MLPS n. 3719 del 27 novembre 1986, la quale chiarisce che:
- la “metà dell’orario” deve essere parametrata all’orario ordinario effettivo giornaliero della lavoratrice, che può risultare inferiore a quattro ore nel caso di orari ridotti;
- nei contratti part-time verticali, in cui la prestazione si concentra in determinati giorni della settimana, la disposizione in oggetto trova comunque applicazione, poiché permane l’esigenza di tutela propria della condizione gestazionale.
Infine, si evidenzia che, come previsto dalla normativa, l’interdizione per tale fattispecie si estende esclusivamente fino alla conclusione del periodo di congedo obbligatorio di maternità, non oltre. L’eventuale prosecuzione fino al settimo mese di vita del figlio è prevista solo nei casi espressamente disciplinati dalla legge.
SPOSTAMENTO AD ALTRA MANSIONE
Con riferimento alla possibilità di adibire la lavoratrice a mansioni alternative in caso di rischio per la salute e sicurezza durante la gravidanza o l’allattamento, l’interpello del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali prot. n. 6584 del 28 novembre 2006 ha chiarito che la nozione di “impossibilità di spostamento” va intesa in senso relativo e non assoluto.
In altri termini, non è necessario che manchino del tutto mansioni alternative: è sufficiente che lo spostamento ipotizzabile comporti, da un lato, un onere eccessivo per la lavoratrice (ad esempio per la distanza, l’orario o la natura della mansione), e dall’altro, una scarsa utilità per l’organizzazione aziendale. Tale lettura è coerente con il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, di cui all’art. 1175 c.c., secondo cui non è esigibile una prestazione lavorativa marginale, che costringerebbe la lavoratrice a recarsi inutilmente sul luogo di lavoro per attività prive di reale utilità.
A supporto, la nota ministeriale prot. n. 7553 del 2013 ribadisce che la valutazione della fattibilità dello spostamento ad altra mansione spetta in via esclusiva al datore di lavoro, in quanto unico soggetto in grado di conoscere l’organizzazione interna dell’impresa e di valutarne le ricadute operative.
Ne consegue che l’eventuale verifica da parte dell’ITL sulla fondatezza della dichiarata impossibilità di ricollocazione deve essere considerata un’eccezione, attivabile solo in presenza di circostanze particolari che ne giustifichino l’intervento. Qualora si proceda con un provvedimento di diniego per carenza dei presupposti, lo stesso dovrà essere debitamente motivato, specificando le ragioni che contrastano con quanto rappresentato dal datore di lavoro.