Notiziario delle recenti pronunce di rilievo in materia di licenziamento nell’ambito della giurisprudenza della suprema Corte di Cassazione - 2/2023
Segnaliamo alcune recenti pronunce della Cassazione in materia di licenziamento, al fine di informare le imprese associate circa gli orientamenti giurisprudenziali e gli esiti delle impugnative, fermo che è sempre attivo il nostro servizio sindacale, telefonico e su appuntamento, per supportare il datore di lavoro nelle eventuali procedure di licenziamento individuale o collettivo.
Suggerimento n. 511/105 del 2 novembre 2023
CASSAZIONE CIVILE - SEZIONE LAVORO - ORDINANZA N. 29337 DEL 20.10.2023 - LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO - È LEGITTIMO E NON RITORSIVO IL LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO NEI CONFRONTI DI UN DIPENDENTE PART TIME CHE ABBIA RIFIUTATO IL FULL TIME, SE SUSSISTONO EFFETTIVE ESIGENZE ORGANIZZATIVE ED ECONOMICHE CHE NON CONSENTANO LA CONTINUAZIONE DELLA PRESTAZIONE A ORARIO RIDOTTO
Una lavoratrice assunta nell’aprile 2017 (con un contratto c.d. a tutele crescenti) nel mese di settembre 2019 è stata licenziata per giustificato motivo oggettivo, dopo aver rifiutato la proposta aziendale di trasformare a full time il proprio rapporto di lavoro a part time orizzontale - di 20 ore settimanali - e dopo aver istruito un’altra dipendente assunta nel frattempo a full time.
La lavoratrice ha impugnato il licenziamento avanti al Tribunale di Milano, sostenendone l’illegittimità e la natura ritorsiva, dal momento che nella fattispecie era riscontrabile un incremento dell’attività aziendale tale da non poter giustificare la soppressione del posto di lavoro in questione e la contestuale assunzione di altra lavoratrice full time, con analoghe mansioni. Il Tribunale di Milano (in primo grado) ha respinto l’impugnazione, ritenendo provate le ragioni del datore di lavoro e giustificato il licenziamento individuale intimato per motivo oggettivo.
La Corte di Appello di Milano, all’esito del giudizio (di secondo grado), ha dichiarato invece la nullità del licenziamento, disponendo persino la reintegrazione della lavoratrice e il pagamento di una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR dalla data del licenziamento a quella dell’effettiva reintegra (oltre al versamento dei contributi previdenziali ed assicurativi). La Corte di Appello ha richiamato l’art. 8 comma 1 del D. Lgs n. 81/2015 (che testualmente recita “ Il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento”), argomentando che l’azienda aveva pretestuosamente affermato di aver dovuto riorganizzarsi per fronteggiare un incremento dell’attività, non avendo invece dimostrato che l’assunzione di una nuova lavoratrice full time fosse da ascriversi alla difficoltà nel reperire in tempi stretti un’ altra risorsa part time e all’impossibilità di ripartire tra le due risorse in questione un pacchetto complessivo di clienti. Peraltro, il licenziamento, oltre che illegittimo è stato ritenuto altresì ritorsivo, quindi nullo, in quanto collegato esclusivamente al rifiuto opposto dalla lavoratrice alla richiesta datoriale di trasformazione del proprio rapporto di lavoro in full time.
Tale decisione non è stata tuttavia confermata anche dalla Corte di Cassazione (terzo grado) che, con ordinanza, ha dichiarato la legittimità del licenziamento, cassando la sentenza di secondo grado e rinviando alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione, per procedere a nuovo esame, attenendosi ai principi di diritto esposti e di seguito sintetizzati.
Con riguardo al citato art. 8 comma 1 del D. Lgs n. 81/2015, la Corte di Cassazione si era già pronunciata nel senso che tale disposizione non preclude la facoltà di recesso datoriale per motivo oggettivo in caso di rifiuto del part time (o viceversa), ma comporta una rimodulazione del giustificato motivo oggettivo e dell’onere della prova posto a carico del datore di lavoro.
Il datore ha un doppio onere probatorio in questo caso: «non solo la prova della effettività delle ragioni addotte per il cambiamento dell’orario ma anche quella dell’impossibilità dell’utilizzo altrimenti della prestazione con modalità orarie differenti». Se la prova di entrambe queste condizioni è soddisfatta, il licenziamento del dipendente che ha rifiutato la modifica dell’orario è legittimo.
Più in dettaglio, occorre che il datore di lavoro dimostri:
- la sussistenza di effettive esigenze economiche ed organizzative, che non consentono di mantenere la prestazione lavorativa con la modulazione oraria iniziale
- l’avvenuta proposta di modifica dell’orario di lavoro ed il rifiuto del dipendente
- un nesso causale tra le esigenze di modifica dell’orario ed il licenziamento del dipendente, stante l’impossibilità di utilizzazione diversa della sua prestazione lavorativa con le modalità orarie iniziali.
Nel caso di specie, la Corte di appello di Milano erroneamente non ha quindi tenuto conto che all’epoca dei fatti l’azienda aveva avuto un effettivo incremento lavorativo dovuto a tre nuovi clienti. La dipendente con orario part time aveva rifiutato di trasformare il rapporto a full time e concesso di svolgere al massimo saltuariamente qualche ora di lavoro supplementare ed esclusivamente per seguire i clienti già assegnati, mentre la dipendente neoassunta era stata inizialmente ingaggiata con orario di 36 ore settimanali (part time al 90%). A considerare quindi necessario un incremento di orario anche solo di 6 ore di lavoro a settimana, il datore di lavoro non avrebbe potuto assegnarle tutte alla neoassunta, poiché l’orario di lavoro massimo contrattuale è di 40 ore settimanali e ne sarebbero comunque rimaste due da coprire, stante il rifiuto della prima dipendente a passare a full time. Pertanto, nel giudizio di secondo grado, si ritiene sia stata dimostrata l’impossibilità di ripartire tra le due dipendenti il nuovo complessivo pacchetto di clienti, stante un incremento di clientela non contestato e pacificamente confermato dalle parti, quale causa indiretta e mediata della soppressione del posto di lavoro della dipendete che ha rifiutato il lavoro full time.
La Corte di Cassazione ha precisato altresì che il lavoratore che voglia invece affermare il carattere ritorsivo del licenziamento intimatogli, alla luce del citato art. 8 comma 1 del D. Lgs n. 81/2015, deve dimostrare, anche mediante presunzioni, che l’intento ritorsivo datoriale sia stato il solo determinante. L’accertamento di questo unico e determinate motivo ritorsivo del licenziamento è una questione di fatto che deve essere appurata solo dal giudice di merito e non è sindacabile dalla Cassazione, quale giudice di legittimità.