Cos’è il greenwashing

Con la crescente sensibilità verso le tematiche ambientali, è molto alta la tentazione da parte delle aziende, di produzione o finanziarie, di dare un’immagine verde per ottenere un migliore posizionamento sul mercato. Se le dichiarazioni ambientali non corrispondono alla sostanza, c’è il rischio di greenwashing cioè di scivolare nella pratica del c.d. “ambientalismo di facciata”.

Suggerimento n. 311/18 del 4 maggio 2022


Il termine greenwashing deriva dall’unione delle parole green e washing che in italiano può essere reso con l’espressione “ambientalismo di facciata”.

Nella pratica il greenwashing è una strategia di comunicazione adottata da imprese, organizzazioni o istituzioni politiche che comunicano un impegno e un attaccamento alle politiche ambientali che in realtà non esiste con lo scopo di ottenere attenzione e gradimento da parte dei propri stakeholder (ad esempio: clientela, finanziatori, autorità pubbliche), aumentare quote di mercato sulla base di presunte caratteristiche green dell'azienda e/o dei suoi prodotti, anche se quanto dichiarato non corrisponde (parzialmente o completamente) alla realtà dei fatti.

Per esempio, un’impresa potrebbe dire, sul proprio sito web, sui canali social, nelle interviste ecc…, di impiegare prodotti riciclati o adottare processi produttivi sostenibili, quando in realtà non è così, oppure sottolineare di aver adottato nuove pratiche sostenibili che in realtà ne mascherano altre che vanno a contraddire o che non confermano in realtà l’impegno adottato.

Le aziende adottano tale comportamento come forma di marketing perché, in questo modo, la loro immagine migliora, diventa positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale e attraggono il consumatore ecosensibile, aumentando di conseguenza la propria clientela.

Tra i tanti modi in cui si può fare greenwashing sicuramente l’utilizzo di un linguaggio vago e approssimativo è il primo segnale di allarme o, al contrario, un’esposizione troppo tecnica tale da essere incomprensibile ai non addetti ai lavori.

Allo stesso modo l’impiego di immagini suggestive, con prevalenza di tonalità di verde o di soggetti naturali che evocano un certo interesse verso le questioni ambientali, possono trarre in inganno oppure l’utilizzo di comuni slogan e proclami ambientalisti che possono risultare piuttosto vaghi o fraintesi da parte dei consumatori.

Nel greenwashing gli esempi spaziano dall’uso disinvolto di richiami all’ambiente nella comunicazione istituzionale come filosofia o mission aziendale, alla comunicazione di prodotto come risultato di processi sostenibili. Tutto questo però non viene mai supportato da risultati reali e credibili sul fronte del miglioramento dei processi produttivi adottati o dei prodotti realizzati.

In Italia fino al 2014 non esisteva un riferimento legislativo specifico per il greenwashing ma il controllo era affidato all’Antitrust sotto la disciplina della “pubblicità ingannevole”. Nel marzo 2014, l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria ha pubblicato la 58° edizione del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, che propone un primo riferimento all’abuso di diciture che richiamino la tutela ambientale.

Oggi il greenwashing in Italia viene considerato pubblicità ingannevole ed è controllato dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. In passato sono state già emesse diverse sentenze di condanna per alcune aziende che facevano uso del greenwashing, come la Snam che è stata condannata nel 1996 per il suo slogan “Il metano è natura”.

Tra i casi più noti di greenwashing c’è lo spot di Ferrarelle che pubblicizzava la bottiglia a “impatto zero” promettendo la compensazione della CO2 emessa con la tutela di nuove foreste: l’azienda è stata multata perché la definizione di “impatto zero” lascia intendere che la CO2 venga interamente compensata.

Nel 2010 anche San Benedetto è stata multata per avere presentato la sua bottiglia di plastica come “amica dell’ambiente” in diverse pubblicità. Infine, anche l’azienda Sant’Anna è stata multata nel 2012 perché nella pubblicità sull’eco-bottiglia riportava pregi ambientali superiori alla realtà.

Il 26 novembre 2021 è stata emessa la prima ordinanza cautelare di un Tribunale italiano in materia di greenwashing, un atto che risulta essere tra i primi anche in Europa: dopo i provvedimenti emessi dall’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria e dall’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato, anche la magistratura ordinaria si è quindi espressa sulla comunicazione green delle aziende e dei loro prodotti.

Come accertarsi quindi della reale sostenibilità ambientale delle aziende ed evitare fenomeni di greenwashing?

 La sostenibilità ambientale per essere reale e quindi credibile deve sempre essere misurabile e documentabile.

È importante verificare la presenza di documenti reali, certificazioni ambientali, come gli standard EMAS (standard europeo che prevede la pubblicazione di una “dichiarazione ambientale” che tenga conto di vari parametri) e ISO 140001 (riferimento internazionale per linee guida e i requisiti minimi per ottenere una certificazione), ma anche il GRS, ovvero Global Recycled Standard per quanto riguarda chi si occupa di materiali riciclati, marchi e protocolli di comportamento.

Tutti questi strumenti di marcatura ed etichettatura volontari sono alcuni modi con cui è possibile dimostrare l’aderenza delle aziende ai regimi di tutela ambientale e risparmio energetico.

Lo Sportello TES è inoltre a disposizione delle imprese anche per eventuali esigenze che richiedano una ulteriore consulenza.


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